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Cultura del progetto e spazi commerciali
nell’età del moderno – 1900/1940

20 Dicembre 2014

Adolf Loos, sartoria Knize, Vienna, 1910-13; fronte su strada, stato originario e veduta recente.
Adolf Loos, sartoria Knize, Vienna, 1910-13; fronte su strada, stato originario e veduta recente.

 

Il progetto di spazi per la vendita al dettaglio si offre a molteplici, ed in alcuni casi controverse, considerazioni. È opinione diffusa, e almeno in parte condivisibile, che nel periodo “aureo” della modernità “maestri” ed architetti “di fama” gli abbiano dedicato scarsa attenzione e che, più in generale, non vi siano state molte manifestazioni di reciproco interesse fra cultura architettonica e committenza di spazi commerciali. Non mancano comunque eccezioni di rilievo da una parte e dall’altra, così come le motivazioni addotte trovano, a volte, un riscontro solo parziale. Si è, per esempio, osservato che fosse ritenuto riprovevole applicarsi ad un tema tanto strettamente connesso al business. Nei primi decenni del Novecento non si coglie tuttavia la netta distinzione tra architettura “impegnata” e architettura commerciale che è piuttosto prerogativa della critica militante degli anni 1950 e 1960 e, quindi, della rilettura operata da un tale pensiero, all’epoca culturalmente egemone, e volta a contrapporre valori etici alla società dei consumi allora agli albori. In conseguenza di ciò le problematiche progettuali dello spazio commerciale restavano effettivamente in buona misura affidate ad una pubblicistica di settore e a professionisti specializzati. Per contro, nella condizione attuale, in cui la logica del mercato e l’ “ideologia” della marca dominano pressoché incontrastate e un po’ tutti gli architetti e designer di fama si sono confrontati con il progetto di più o meno imponenti “sacrari del consumo”, si registra, anche in questo caso con le dovute eccezioni1, un ritardo nel riconsiderare il fenomeno nel suo sviluppo storico.

 

 

  • Adolf Loos, sartoria Knize, Vienna, 1910-13; veduta della sala d’attesa al primo piano e della scala.
  • Adolf Loos, sartoria Knize, Vienna, 1910-13; veduta d’epoca di uno dei locali della sartoria al primo piano.
  • Robert Mallet-Stevens, negozio di calzature Bally, Parigi, 1928; fronte su strada.
  • Robert Mallet-Stevens, negozio di calzature Bally, Parigi, 1928; veduta della sala principale con, sullo sfondo, le vetrate artistiche di Louis Barillet.
  • Negozio di calzature Bally a Parigi, manifesti promozionali con, a sinistra, i pannelli metallici rivettati di facciata utilizzati come sfondo e, a destra, testimonial dell’attrice Jeanne Provost, 1929 ca.
  • Gerrit Th. Rietveld, gioielleria delle Goud en Zilversmidscompagnie, Utrecht, 1921-23; fronte su strada.
  • Gerrit Th. Rietveld, gioielleria delle Goud en Zilversmidscompagnie, Utrecht, 1921-23; interno.
  • Gerrit Thomas Rietveld, pelletteria E. Wessels en Zoon, Utrecht, 1924; fronte su strada.
  • Gerrit Th. Rietveld, showroom Metz & Co., Den Haag, 1934; fronte su strada.

 

 

A fronte dell’indubbio rilievo che il tema ha assunto, viene altresì da chiedersi in che misura l’attualità proponga uno scenario del tutto nuovo o non si stia, piuttosto, assistendo al compimento di una tendenza in atto almeno dagli esordi dell’era industriale. «Not only is shopping melting into everything, but everything is melting into shopping», scrive Sze Tsung Leong nel suo contributo al volume dell’Harvard Design School che può essere assunto a riferimento nell’analisi della sempre maggiore pervasività degli spazi commerciali2. Ma il processo di colonizzazione dello spazio (e delle menti) - quello che Guy Debord definiva «il divenire mondo della merce, che è altrettanto divenire merce del mondo» - è un fenomeno che affonda le sue radici quanto meno nei passages parigini di inizio Ottocento e, di lì a poco, nei primi grandi magazzini e in quelle esposizioni universali che secondo la non meno celebre riflessione di Walter Benjamin edificano l’universo delle merci e lo trasfigurano, divenendo «luoghi di pellegrinaggio al feticcio merce». Se Benjamin coglieva il ruolo sempre maggiore che lo spettacolo delle merci veniva assumendo nello spazio pubblico in concomitanza con l’emergere dei fenomeni della moda e della pubblicità, lo studio dell’Harvard Design School porta alle estreme conseguenze il discorso e giunge ad ipotizzare che lo shopping sia l’unica forma residuale di attività pubblica.
Non c’è poi nulla di nuovo nel fatto che, nella generalità dei casi, una qualsivoglia attività commerciale affidi in misura consistente la propria capacità di attrazione al proporsi come “novità”. Ne consegue che il negozio deve sottoporsi a periodici interventi di rinnovo o, in caso contrario, solo se riesce a sopravvivere uguale a se stesso per qualche decennio può aspirare ad essere considerato “storico” e in quanto tale salvaguardato. In genere l’allestimento di un negozio ha quindi vita breve, ma proprio questa condizione di permanente mutevolezza - animata dalla tensione ad interpretare il gusto del momento e, se possibile, anticiparlo e indirizzarlo - può far sì che esso riesca ad intercettare più compiutamente di altri temi progettuali lo “spirito” del proprio tempo e gli stili di vita che lo contraddistinguono.
Nell’ambito di una casistica che resta comunque estremamente ampia e che mal si presta ad essere ricondotta ad un ordinamento tassonomico, la ricognizione qui proposta è sostanzialmente limitata al negozio di lusso e a quello monomarca in quanto è per queste categorie di vendita che – in modo pressoché esclusivo nella prima metà del Novecento, ma in larga misura anche in seguito – le esigenze di prestigio e distinzione possono indirizzare verso una progettazione architettonica qualificata e più frequentemente stabilire correlazioni con l’arte, il design e la moda.
Adolf Loos e Robert Mallet-Stevens sono tra i protagonisti che nei primi decenni del Novecento hanno maggiormente frequentato il tema dello spazio commerciale nella loro elaborazione sia progettuale che teorica. Unanimemente celebrato - quanto votato a restare figura unica ed isolata - il primo, trattato fino a non molti anni fa con sufficienza il secondo, hanno entrambi fornito risposte congruenti alle richieste della loro committenza nonostante partissero da punti di vista pressoché opposti.

 

Wells Coates, negozio Cresta Silks a Bournemouth, 1929.
Wells Coates, negozio Cresta Silks a Bournemouth, 1929.

 

Nella sua accesa polemica a favore della permanenza dei segni e contro la libera espressione della creatività artistica, Adolf Loos si scaglia contro la moda e gli stili intesi come manifestazioni effimere. Né la sua posizione risulta scalfita se si nota come i suoi negozi presentino caratteri di qualificazione e sofisticazione superiori a quelli del primo showroom della Wiener Werstätte allestito nel 1903 a Vienna, sulla defilata Neustiftgasse, dal suo nemico d’elezione, Joseph Hoffmann, e da Kolomon Moser3.
Sempre a Vienna, ma sul centralissimo Graben, Loos nel 1910-13 progetta, per esempio, il primo di una serie di negozi di sartoria maschile per l’allora imperial-regia Knize4.
Sulla base di un’esperienza ormai consolidata, il rivestimento litico dello stretto fronte su strada è utilizzato per diversificare la funzione commerciale da quella residenziale, mentre le vetrine arretrate attirano verso l’interno. L’angusto vano al piano terra è destinato al veloce smercio di accessori e altri articoli confezionati ed è messo, tramite specchi, in comunicazione visiva con il piano superiore, dove si distendono ampi e confortevoli locali a doppia altezza nei quali finiture ed arredi tanto sobri quanto ricercati ricreano l’ambiente familiare di un interno borghese per la selezionata clientela che può lì intrattenersi. Nel fare ciò, l’operare di Loos non è solo attento a soddisfare le esigenze della committenza, bensì anche a compiacere le aspettative del consumatore, consapevolmente riguardato come tale.
Al pari di Robert Mallet-Stevens, Adolf Loos non guarda ad una palingenetica società di là da venire, ma è ancorato all’esistente e a dare un’espressione moderna al gusto della classe sociale di cui fa parte. Nonostante ciò la modernità di Loos si pone programmaticamente in continuità con la tradizione, intesa come elemento per contrastare l’arbitrarietà delle forme, mentre quella di Mallet-Stevens è, al contrario, quasi freneticamente tesa a cogliere ogni elemento di novità e, in un’eclettica sintesi delle più svariate suggestioni, a restituire in forme intrinsecamente decorative anche gli esiti delle avanguardie artistiche e architettoniche più radicali. In epoche in cui non era ancora consuetudine disquisire sulla profondità della superficie, quella che oggi potrebbe essere riguardata come anticipatoria contaminazione di arte, moda e architettura gli è a lungo valso giudizi di “formalista incallito” (Sigfried Giedion), “modernismo alla moda” (Tafuri-Dal Co) e quant’altro.
Non di meno, la sua ansia di aggiornamento lo porta ad esplorare un po’ tutti gli strumenti per divulgare l’architettura moderna ed in questo senso anche il negozio è visto come possibile «artefice della miglior propaganda in favore della costruzione moderna»5 e si offre come campo privilegiato di sperimentazione in una relazione che non è a senso unico: la novità dell’architettura è chiamata a riflettere la novità della merce. Allo stesso tempo, le sue realizzazioni sorprendono per lo straordinario livello qualitativo che attinge ed è parte del variegato mondo a posteriori compreso nel termine Art Déco e che è reso possibile dalle raffinate capacità degli artistes décorateurs che lo animano e con i quali è costantemente in sodalizio.

 

 
Wells Coates, negozio Cresta Silks a Londra, 1931.
Wells Coates, negozio Cresta Silks a Londra, 1931.

 

Il primo dei negozi realizzati per Bally è un’eclatante manifestazione della “modernità mondana” che Mallet-Stevens mette in scena in sintonia con le tendenze in atto nella Parigi bene degli anni 19206. Il rivestimento del fronte su strada in pannelli metallici fissati con rivetti coglie evidentemente talmente nel segno da essere ripreso nei manifesti pubblicitari dalla prestigiosa azienda svizzera di calzature. Una lega, l’alpacca, da tempo utilizzata per dare a costi contenuti un effetto di preziosità ad oggetti d’uso, è allo stesso fine utilizzato come materiale architettonico, mentre il ricorso al bronzo dorato è limitato ai profili della lunga teca orizzontale, alla composizione geometrica della porta d’ingresso e all’insegna; la pensilina retroilluminata, così come la sottolineatura dell’ingresso e della vetrina con luci pure schermate da vetro opalino, fa poi sì che lo scintillio dello spazio commerciale risalti ancora maggiormente al calar delle tenebre sullo sfondo degli edifici ottocenteschi in cui è inserito. Gli interni accentuano ulteriormente il senso di lusso esclusivo, connotando in forme smaccatamente moderne un’organizzazione dello spazio che, per altro, non si discosta da quella all’epoca consueta. L’atrio con il banco cassa introduce allo spazioso ambiente principale di vendita con una teca-scultura al centro; da qui si passa al grand salon con due vetrate artistiche retroilluminate, ad esedra sulla parete di fondo e a soffitto, per, infine, arrivare al petit salon, ambiente più pacatamente rivestito in legno per accogliere in privato i clienti d’eccezione.
Mentre nella repubblica di Weimer il progetto di spazi commerciali è parte importante, se non predominante, dell’intensa attività professionale di Erich Mendhelson7, in Olanda è Gerrit Thomas Rietveld che applica anche al negozio la sua instancabile attitudine alla sperimentazione in una pluralità di applicazioni che, senza mai ripetersi identicamente, mostrano le potenzialità dell’architettura moderna a dare soluzione a problemi complessi attraverso un apparentemente semplice gioco plastico di piani e volumi8.

 

 

  • Giuseppe Terragni, negozio di cristalli e ceramiche Vitrum, Como, 1930; vetrina verso piazza Duomo.
  • Giuseppe Terragni, negozio di cristalli e ceramiche Vitrum, Como, 1930; la stessa vetrina verso piazza Duomo vista dall’interno.
  • Giuseppe Terragni, negozio di cristalli e ceramiche Vitrum, Como, 1930; veduta interna del fronte sulla strada laterale.
  • Giuseppe Terragni, negozio Vitrum, Como, 1930; vetrina interna che articola lo spazio nei due reparti dei cristalli e delle ceramiche.

 

 

I suoi interventi ricercano il rapporto con la strada, si confrontano con la specificità del tema, reinventano il concetto di vetrina, esplorano le potenzialità comunicative dell’insegna. Le grandi vetrate esterne, come il ricorso a teche vetrate anche negli interni, annullano la distanza fra consumatore e oggetto. Allo stesso tempo l’allestimento e l’illuminazione distaccano l’oggetto e tendono ad avvolgerlo in una sorta di alone magico. Dopo un incarico risalente al 1919, la Gioielleria Cornelis Begeer ad Utrecht, nel quale queste qualità restano in larga misura ancora in nuce, l’innovatività del suo approccio è già evidente nella gioielleria della Goud en Zilversmidscompagnie del 1921-23. La contenuta estensione del fronte su strada è risolta con una composizione di volumi vetrati incorniciati da profili metallici che interessa l’intera luce; la vetrina in primo piano, un parallelepipedo che occupa metà dell’altezza, pare sospesa nel vuoto e poggiare solo con uno spigolo sul gradino che fissa la quota dell’ingresso arretrato. La soluzione della teca di facciata, nella cornice di un fronte interamente vetrato, è in seguito più volte ripresa, allineata al fronte stradale o ruotata, in ragione della collocazione nel contesto e per garantire la migliore accessibilità e visibilità. Analogamente, la visibilità del negozio è perseguita attraverso l’innovativo approccio alla comunicazione visiva: la trave strutturale che, colorata di rosso, è fatta aggettare dall’allineamento stradale nella pelletteria E. Wessels en Zoon, ancora a Utrecht del 1924, come, più in generale, lo studio delle insegne, luminose o meno, che secondo i casi possono essere a bandiera, disposte in verticale o inclinate a 45 gradi.
L’esperienza che tra il 1928 e il 1932 Wells Coates compie nei negozi per Crysede Silks e Cresta Silks è forse meno nota, ma non di meno significativa9. Convinto e partecipe assertore del funzionalismo, l’architetto e designer inglese predispone arredi standardizzati è sostiene la validità di un progetto semplice e non condizionato dalle mode passeggere, le quali possono, a suo avviso, in modo più economico trovare espressione negli allestimenti della vetrina senza la necessità rinnovare il negozio ogni pochi anni. Pur senza smentire le sue convinzioni circa la validità della messa a punto di forme-tipo, Coates inserisce tuttavia aggettivazioni soggettive e peculiari in ogni singolo incarico che, per quanto meno “frivole”, non sono in tutto estranee alle concezioni di Mallet-Stevens, delle quali era a conoscenza, e che rispondono alle medesime finalità. Una grande vetrina è in tutti i casi inserita in un fronte ampiamente o completamente vetrato. Nel primo negozio londinese essa è un parallelepipedo sormontato dal logotipo in forte rilievo, in quello di Bournemouth si sdoppia anche ortogonalmente nell’antinegozio che precede l’ingresso. Nel negozio di Brighton la vetrina crea un invito all’ingresso arretrato mediante l’innovativo ricorso al vetro curvato poggiante su di uno zoccolo metallico, mentre il terzo superiore del fronte su strada è occupato per tutta la lunghezza dal logotipo con il lettering disegnato da Edward McKnight Kauffer. Un anno dopo, nel 1931, la stessa soluzione, semplicemente specchiata e con uno zoccolo più alto, è riproposta nel secondo negozio londinese.

 

Cesare Scoccimarro, negozio di ottica Salmoiraghi, Milano, 1931.
Cesare Scoccimarro, negozio di ottica Salmoiraghi, Milano, 1931.

 

Gli spazi commerciali occupano un posto di rilievo anche nei segnali di rinnovamento che si vengono manifestando in Italia intorno al 1930 e la La Casa bella si offre come buon osservatorio per cogliere i contrastanti elementi che contraddistinguono un momento di passaggio. Sulle sue pagine convivono infatti persistenti rimandi alla per altro recente origine legata alle arti decorative e proiezioni verso le esperienze più avanzate delle avanguardie architettoniche, che segnalano l’avvio della collaborazione alla rivista, tra gli altri, di Giuseppe Pagano ed Edoardo Persico. Senza apparente contraddizione, possono così trovare spazio la presentazione di un “servizio da fumo” e quella della Frankfurter Küche, un articolo di Alberto Sartoris sulla “Abitazione minimum” e la puntuale documentazione dell’ultimo Salon des Artistes Décorateurs.
Un editoriale del 1931 chiarisce in modo molto chiaro il punto di vista della rivista: «i negozi di linea schiettamente attuale (…) si sono rivelati ottime attrazioni per il pubblico che li affolla e li preferisce ai loro congeneri di fisionomia più consueta; in una parola il “moderno” ci appare anche in Italia (…) un ottimo agente di vendita». E, a sottolineare una posizione in tutto simile a quello di Mallet-Stevens, chiarisce ulteriormente: «Una volta tanto l’Arte con l’iniziale maiuscola discende dal suo empireo a spiegare i fenomeni della vita (…): dal nuovo del negozio al nuovo delle merci e dei sistemi»10.
I caratteri delle attività commerciali che la rivista presenta nella rubrica “La città che si rinnova” – quasi sempre a cura Edoardo Persico - sono assai diversificati e spaziano tra esempi di spiccato gusto Novecento ed il celebre «caffè-bar Craja, degli architetti Baldessari, Figini e Pollini, [che] rappresenta a Milano l’ultima espressione del gusto moderno»11. Né può mancare, fra le opere più apprezzate, il negozio di cristalli e ceramiche Vitrum di Giuseppe Terragni a Como. Il dettato funzionale è qui compiutamente rispettato, ma è solo il punto di partenza da cui scaturisce la messa in scena di un allestimento che genera una fantasmagoria di effetti, «capaci – come nota Persico– di parlare alla fantasia con gli oggetti più comuni, cui il modo di presentarli conferisce quasi un valore metafisico»12.
Lavorando sull’immaterialità del vetro, sulle trasparenze e sulle opacità, sui giochi di riflessi e sulle luci “misteriose” celate da schermi di vetro opalino, Terragni organizza una successione di eventi fortemente espressivi e, in una pluralità di riferimenti e suggestioni, interroga l’enigma in un sincretico distillato che non è probabilmente arbitrario riguardare come una prima manifestazione compiuta della sua unica ed originale sensibilità progettuale, nonché di quanto il suo razionalismo sia oltre il significato letterale del termine.
Meno noto, ma non di meno interessante, è anche l’altro caso che La Casa Bella illustra assieme a Vitrum: il negozio di ottica Salmoiraghi di Cesare Scoccimarro. Pur senza le inflessioni “metafisiche” di Terragni, anche Scoccimarro fa ampio ricorso alle potenzialità del vetro, all’effetto di smaterializzazione del vetro trasparente associato a quello opalino utilizzato per retroilluminazioni e colonne luminose, mentre anche le parti lignee degli arredi si liberano dalla “solennità” delle impiallacciature in essenza pregiata per una finitura laccata che la didascalia ci informa essere di colore verde corallo.
Il percorso compiuto dagli architetti del razionalismo italiano può poi trovare un’esemplificazione nell’opera di Pietro Lingeri, che di spazi commerciali si occupa con continuità e in modo non marginale lungo tutto l’arco della sua attività13.
Intorno al 1930 l’impronta è, in estrema sintesi, quella di un novecentismo connotato da sofisticazioni Déco che, mentre è in via di superamento il retaggio della sua formazione accademica, vanno di pari passo ad una decisa semplificazione linguistica, come si può cogliere dal confronto fra la prospettiva di progetto e la veduta d’epoca del fronte su strada del negozio di abbigliamento Al Principe di Galles. Negli anni successivi emerge invece un’idea di modernità che prende le distanze da un generico modernismo e che si può, ad esempio, osservare nel negozio di abbigliamento per bambini Juventus o, ancor di più, nei progetti per il negozio di pelletteria PAM a Genova che Lingeri redige, in due distinti momenti, nel 1939 e nel 1946-48. In questi progetti, che hanno palesi affinità con quelli di Franco Albini del primo dopoguerra, si coglie appieno quella “scoperta” della leggerezza che tanto Lingeri quanto Albini sperimentano negli allestimenti espositivi degli anni Trenta e che traspongono anche nel progetto di negozi.
Mentre lo stesso Persico, in collaborazione con Marcello Nizzoli, tra il 1934 e il 1935 si impegna in prima persona nella progettazione dei due piccoli negozi di penne stilografiche Parker che sono a pieno titolo entrati nella storia dell’architettura italiana, alla metà degli anni Trenta apre a Torino il primo negozio monomarca Olivetti, opera di Xanti Schawinsky.

 



  • Pietro Lingeri, negozio di abbigliamento Al Principe di Galles, Milano, 1930-31.
  • Pietro Lingeri, negozio di abbigliamento per bambini Juventus, Milano, 1936-37.
  • Pietro Lingeri, pelletteria PAM, Genova, 1939; prospettiva di progetto.
  • Pietro Lingeri, pelletteria PAM, Genova, 1946-48; prospettiva di progetto.
  • Xanti Schawinsky, negozio Olivetti, Torino, 1935; tavola di sintesi degli elementi di progetto.
  • Xanti Schawinsky, negozio Olivetti, Torino, 1935; fronte su strada.
  • Xanti Schawinsky, negozio Olivetti, Torino, 1935; interni.

 



Nella presentazione che ne fa Domus, il commento è ancora una volta di Persico, a colpire, ancor più che le immagini dell’opera realizzata, è l’allegata tavola a colori14.
Nel proporre una sinossi degli elementi caratterizzanti del progetto, l’allegato rende conto della formazione che Schawinsky ha avuto al Bauhaus e che – come nota Dario Scodeller - lo porta ad affrontare «il progetto, non come problema di architettura o arredamento, bensì come problema di visual design. L’attenzione è spostata dallo spazio al medium espositivo e l’esposizione commerciale è associata alla comunicazione visiva»15.
Il negozio di Torino è il primo di una lunga serie che negli anni e nei decenni successivi costituisce, come noto, uno degli episodi più rilevanti della collaborazione tra un’azienda ed un numeroso e variegato gruppo di architetti ed artisti.



di Stefano Zagnoni



Note
1 Cfr. p.e. Dario Scodeller, Negozi, l’architetto nello spazio della merce, Electa, Milano 2007.
2
Sze Tsung Leong, “… And Then There Was Shopping”, in Chuihua Judy Chung et al. (a cura di), Harvard Design School Guide to Shopping, Harvard University Graduate School of Design, 2002, p. 129.
3 Cfr. p.e. Gabriele Fahr-Becker, Wiener Werstätte 1903-1932, Taschen, Colonia 2008 (1° ed. 1995), pp. 211-215.
4 Cfr. Richard Bosel, Vitale Zanchettin (a cura di), Adolf Loos 1870-1933. Architettura utilità e decoro, Electa, Milano 2006, pp. 208-211; Ralf Bock, Adolf Loos. Opere e progetti, Skira, Milano 2007, pp. 146-151; David Vernet, Leontine de Wit (a cura di), Boutiques and other Retail spaces. The architecture of seduction, Routledge, Abingdon-on-Thames / New York 2007, pp. 71-76.
5 Robert Mallet Stevens, 1929, cit. in Cristiana Volpi, Robert Mallet-Stevens 1886-1945, Electa, Milano 2005, p. 208.
6 Cfr. in part. David Vernet, Leontine de Wit (a cura di), Boutiques and other Retail spaces, cit. pp. 77-81; Cristiana Volpi, Robert Mallet-Stevens 1886-1945, cit., pp. 207-218.
7
Cfr. in part. Bruno Zevi, Erich Mendelsohn Opera completa. Architettura e immagini architettoniche, Testo&Immagine, Torino 1997 (1° ed. 1970).
8 Cfr. in part. Marijke Küper, Ida van Zijl, Gerrit Th. Rietveld. The complete works, Centraal Museum, Utrecht 1992.
9 Cfr. in part. Sherban Cantacuzino, Wells Coates: a monograph, Gordon Fraser, Londra 1978, pp. 40-45.
10
Casa Bella, “Dallo stile al ‘registratore di cassa’”, La Casa Bella, n. 42 – giugno 1931.
11 Edoardo Persico, “La città che si rinnova”, La Casa Bella n. 40 – aprile 1931, pp. 16-21.
12
Edoardo Persico, “La città che si rinnova”, La Casa Bella n. 44 - agosto 1931, pp. 14-17; cfr. anche Ornella Selvafolta, “Negozio Vitrum di Antonio Camanni a Como”, in Giorgio Ciucci (a cura di), Giuseppe Terragni. Opera completa, Electa 2003 (1° ed. 1996), pp. 337-341.
13
cfr. in part. Chiara Baglione, Elisabetta Susani (a cura di), Pietro Lingeri, Milano 2004, passim.
14 Edoardo Persico, "Un negozio a Torino", Domus, n. 92 - agosto 1935, pp. 47-48.
15 Dario Scodeller, Negozi, l’architetto nello spazio della merce, cit., p. 105.


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