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Cultura del design
e design per la cultura

07 Febbraio 2017

Padova, Palazzo del Bo, Scala del sapere. affreschi di Gio Ponti con Giovanni Dandolo e Fulvio Pendini, 1941. Palinuro, Arturo Martini, 1947. (Carlo Calore ph.)

 

 

Un sabato di febbraio del 1987 si trovavano riuniti a Ravenna i protagonisti della grafica italiana per un convegno dal titolo Urbanovisuale,1 organizzato da Giovanni Anceschi e Massimo Casamenti. L’incontro era una delle occasioni di riflessione tra visual designer seguite alla celebre I Biennale della grafica di Cattolica (realizzata nel 1984 e mai più replicata), dove era stata storicizzata la stagione che, grazie alla fortunata definizione di Albe Steiner, fu chiamata della “grafica di pubblica utilità”.2

A partire dalla metà degli anni Settanta le nuove amministrazioni di sinistra, insediate in varie città italiane, avevano identificato nella grafica lo strumento per realizzare (soprattutto attraverso il medium del manifesto murale), un tipo di rapporto più diretto con la cittadinanza nella gestione dei servizi per il territorio e per la promozione delle manifestazioni culturali. Preludio (1971) e apice di quella vicenda, fu la collaborazione tra il Comune di Pesaro e il grafico Massimo Dolcini, alle cui realizzazioni è stata dedicata nel 2015 una bella mostra a Fano.3

Fatta eccezione per Gianni Sassi, convinto assertore della necessità di sganciare il lavoro creativo dal rapporto con le istituzioni, per un decennio una generazione di grafici si trovò a dare forma visiva, attraverso il design, a delle proposte di rinnovamento sociale, culturale e politico della città.

Alla base di questa esigenza di comunicazione c’era, oltre al clima partecipativo degli anni Settanta, la trasformazione della pubblica amministrazione che, con l’attuazione del decentramento alle Regioni e la nascita dei Consigli di quartiere nei Comuni, alimentava per la prima volta una precisa necessità di relazione istituzionale tra l’emittente (ente pubblico) e il ricevente (cittadini).

Proprio Dolcini con il suo studio Fuorischema aveva compiuto, però, alla metà degli anni ’80, il passaggio dalla grafica di pubblica utilità al lavoro di agenzia, diventando artefice della comunicazione per l’azienda marchigiana Scavolini. Era diffusa la convinzione che (come il lavoro di StudioAzzurro stava dimostrando da alcuni anni) il nuovo centro di gravità della comunicazione si stesse spostando dalla carta al video, cioè al medium videomagnetico e televisivo.

Il documentato e articolato saggio che Veronica Dal Buono ci propone in questo libro sulla comunicazione istituzionale, ha come sfondo la radicale trasformazione che l’istituzione universitaria ha subito negli ultimi due decenni, ma è il suo coincidere con la rivoluzione comunicativa portata dal web a rendere questo passaggio ancor più significativo.

In quel sabato di febbraio del 1987, a Ravenna, il filosofo Aldo Colonetti (questo era il nucleo polemico del dibattito), insisteva provocatoriamente nell’affermare che l’immagine non poteva (non avrebbe dovuto) far parte della comunicazione per le istituzioni. Motivava la sua posizione evidenziando il fatto che, in virtù della sua natura polisemica, l’immagine è ambigua, e ne derivava il teorema che la comunicazione istituzionale dovesse essere unicamente di tipo testuale. Compito dell’istituzione avrebbe dovuto essere, perciò, fare informazione e non comunicazione.

Incisiva per le sue premesse indimostrabili, la tesi di Colonetti rappresentava un attacco frontale al lavoro della grafica di pubblica utilità, che aveva trovato proprio nell’immagine il mezzo per comunicare in modo più diretto ed efficace con una cittadinanza composta, in maggioranza, da giovani o da persone con un grado d’istruzione elementare. In quel contesto il lavoro del grafico, come aveva sottolineato Gaddo Morpurgo, era stato soprattutto quello di un “narratore urbano”.4

L’unico a non dimostrarsi spiazzato dalle affermazioni di Colonetti fu proprio Dolcini, il quale rispose prontamente che anche con il teso si può essere ambigui: è sufficiente, infatti, usare una font al posto di un’altra per cambiare “carattere” alla comunicazione. Inoltre, anche la pretesa d’informazione pura – osservava Dolcini – si scontra sempre con la natura del medium con cui viene veicolata: e non serviva scomodare McLuhan (“il medium è il messaggio”), era sufficiente osservare l’inefficacia della deformazione anamorfica del lettering sull’asfalto nella segnaletica delle uscite autostradali. Il contenuto informativo andava dunque valutato anche in rapporto alle condizioni “ambientali” in cui la comunicazione ha luogo, cioè allo stato del ricevente.

Il merito di quei protagonisti della grafica italiana e dei loro critici, è che essi discutevano assieme sugli strumenti ed il significato del proprio lavoro, che venne riconosciuto e celebrato anche l’anno successivo (1988) al Centre Pompidou di Parigi, nella mostra Imagesd’utilité publique. Esponendo i casi studio di quindici paesi, la mostra parigina evidenziava come fosse oramai consuetudine, nell’azione delle istituzioni pubbliche, delle regioni e dei comuni d’Europa, l’uso della comunicazione visiva per assicurare il funzionamento della vita sociale, amministrativa e culturale e ribadiva il ruolo dei grafici come «concepteurs d’images publiques d’utilité sociale, capables de mettre en oeuvre une communication de masse de qualité». L’esposizione si proponeva di sensibilizzare il pubblico e gli amministratori sull’importanza della qualità (forme e contenuto) di questi strumenti di comunicazione (stampe, opuscoli, manifesti, audiovisivi) che venivano definiti degli “oggetti pubblici”.5

Mentre a Parigi si svolgeva la mostra, a Bologna veniva siglata la MagnaChartaUniversitatum, con la quale sarebbero state gettate le premesse per il rinnovamento dell’università europea, che si concretizzerà nella Convenzione di Lisbona del 1997. L’Università italiana di oggi, con tutti i suoi limiti e le sue opportunità, è figlia anche del processo d’integrazione europea e, come ricorda qui Alfonso Acocella nel saggio Comunicazione Istituzionale, la trasformazione che si è creata produrrà i suoi inevitabili effetti per i decenni a venire.

Nel giugno del 1989, il mese successivo all’emanazione della Legge 168 (che istituiva il Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, e sanciva, all’art. 6, l’autonomia dell’Università), ad Aosta i grafici italiani stilavano la Carta del progetto grafico che – ha sintetizzato eloquentemente Carlo Vinti – tentava di «gettare un ponte fra la tradizione professionale ormai consolidata e la rivoluzione digitale appena avviata».6 Al punto 2 la Carta asseriva che: «Nella cultura iperindustriale di massa, la quantità, la frammentazione, la disomogeneità, la dislocazione nell’offerta dei dati necessari all’uomo per vivere, producono una domanda di nuove sintesi e di orientamento. E indubbiamente, l’ente, l’istituzione, l’impresa che affronta il problema di comunicare fa già un primo passo nella direzione di una qualificazione dei beni e dei servizi che produce. (…) con la sua competenza nel pilotare l’attenzione, nell’operare distinzioni percepibili, con la sua capacità di attribuire una forma e un’identità alla comunicazione, la grafica contribuisce a conferire esistenza alle strutture della società.»7

 

Padova, Palazzo del Bo, Scala del sapere. affreschi di Gio Ponti con Giovanni Dandolo e Fulvio Pendini, 1941. Palinuro, Arturo Martini, 1947.

 

 

Questa coincidenza, che abbiamo voluto sottolineare, tra la nascita dell’Università europea e la storicizzazione (anch’essa a livello europeo), della grafica di pubblica utilità, proprio nel momento in cui i media aumentano progressivamente la propria influenza, ci permette di porre in rilievo alcune questioni.

Gli atenei universitari italiani hanno adottato forme progettate di comunicazione fin dagli anni Trenta del Novecento. In quel decennio la popolazione universitaria crebbe da 46.000 a 127.000 iscritti8: lo strumento che le università scelsero allora per auto-rappresentarsi fu l’architettura. I progetti di Gio Ponti per Palazzo Bo all’Università di Padova, di Marcello Piacentini per la città universitaria della Sapienza di Roma, di Giuseppe Pagano per l’Università Bocconi a Milano, possono essere letti come saggi sulla costruzione di una nuova “identità” architettonica dell’università, sollecitata dall’aumento esponenziale delle iscrizioni e da una visione politico-istituzionale.

Rispetto a quell’epifenomeno, la situazione di oggi è assai più complessa. In Italia esistono 67 atenei statali e 20 organizzazioni non statali, a cui sono iscritti quasi due milioni di studenti universitari. Oltre a queste, dal 1999, hanno assunto statuto universitario altre 137 istituzioni confluite nell’AFAM, quali Conservatori musicali e Accademie, con altri 55.000 iscritti. I Corsi di Studio, dopo la riforma del 3+2, sono oltre 4000.9 Se estendiamo l’analisi ai Corsi di Studio europei, a cui i giovani italiani possono iscriversi e presso i cui atenei possono laurearsi, ci troviamo di fronte ad una complessità di dati che disorienterebbe anche il più preparato analista di marketing.

Oggi, per l’università in regime di autonomia, quello che la Carta del progetto grafico identificava come “affrontare il problema di comunicare” è diventato un imperativo. Ma la “domanda di nuove sintesi e di orientamento” è rimasta spesso disattesa perché, di fronte a questa urgenza, le istituzioni universitarie si sono trovate culturalmente impreparate e molto meno equipaggiate economicamente e professionalmente rispetto alle imprese, al cui modello aziendalistico-comunicativo la dimensione concorrenziale le andava progressivamente equiparando e costringendo. Comprendere i problemi relativi alla costruzione dell’identità di un’istituzione universitaria, sempre in bilico tra branding e missione culturale, è perciò un lavoro utile anche per sottolineare la necessità di una volontà, di un pensiero di comunicazione da parte di un ateneo; cioè di quell’intenzionalità politico-istituzionale che precede e conforma ogni policy universitaria.

Il secondo tema riguarda il rapporto tra i progettisti-designer italiani e la complessità di un progetto come quello della comunicazione di un ateneo. Non tanto la loro indubitabile competenza “tecnica”, quanto la “solitudine teorica”, conseguente all’assenza di dibattito che, dagli anni Novanta in poi, non ha più alimentato riflessioni sulle nuove forme di “pubblica utilità” che, proprio dal contesto universitario avevano preso l’avvio alla fine degli anni Settanta. Questa debole presenza della cultura del progetto in un settore importantissimo come quello della formazione e della cultura, ha lasciato spesso campo libero ad una povertà d’impianti visivi (spesso come mera risultante di una sommatoria di opinioni di “comitati”) o al prevalere della “ragione informatica”, che domina la gestione delle piattaforme universitarie di rete.

Un terzo tema, molto più complesso, riguarderebbe lo “stato del ricevente”. O, per meglio dire, il rapporto tra la “produzione” culturale universitaria e la sua propagazione-disseminazione, tema sul quale, nell’ambito del Corso di Laurea in design di Ferrara, come testimonia la cospicua attività editoriale, si è molto lavorato negli ultimi anni.

Al di là dei restyling dei logo e del recupero di storie blasonate, è utile interrogarsi su chi e in quali “condizioni” fruisce oggi della produzione scientifica dell’università e come essa possa rendere disponibili pubblicamente (disseminazione opensource) i “prodotti” della propria attività culturale e di ricerca. Anche sul piano della mera competizione comunicativa perché, invece di essere assimilata ad un’azienda, un’Università non potrebbe assomigliare ad un Istituto di cultura? Considerare oggi il ruolo, le potenzialità e i limiti dei nuovi media nel progetto di questi “oggetti pubblici”, significa anche interrogarsi su come l’università e la sua comunicazione possano guidare, indirizzare, produrre un significativo miglioramento della cultura contemporanea. Un’utile riflessione per gli anni a venire che questo saggio di Veronica Dal Buono ci invita ad intraprendere.

 

 

 

Note

1 L’incontro era associato ad una mostra per la quale vedi: Giovanni Anceschi (a cura di), Urbanovisuale. 10 anni di grafica pubblica a Ravenna, catalogo della mostra tenutasi a Ravenna, Biblioteca Classense, 7-28 febbraio 1987, Ravenna, Edizioni Essegi, 1987, pp. 110.

Fui testimone di quell’incontro perché, giovanissimo, fui inviato da Gaddo Morpurgo a filmare con una Sony video 8 il convegno, la cui registrazione è probabilmente ancora conservata nella Mediateca IUAV a Venezia.

2 Tra il 1979 ed il 1984 furono molte le occasioni d’incontro e discussione tra visualdesigner italiani. Vedi: Giovanni Anceschi (a cura di) Prima Biennale della Grafica/Cattolica 1984. Propaganda e cultura: indagine sul manifesto di pubblica utilità dagli anni Settanta ad oggi, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1984, pp. 174.

3 Massimo Dolcini. La grafica per una cittadinanza consapevole, mostra a cura di Leo Guerra e Cristina Quadrio Curzio. Fano, Galleria Carifano di Palazzo Corbelli (3 luglio – 10 settembre 2015).

4 Gaddo Morpurgo, Immagini e immaginario dei narratori urbani, in Giovanni Anceschi (a cura di) Prima Biennale della Grafica/Cattolica 1984, cit., pp. 23-27. La tesi di Colonetti rievocava, provocatoriamente, la genesi della comunicazione di pubblica utilità sancita dalla Costituzione della Repubblica francese del 3 Settembre1791, dove, all’Art. 1 (Capitolo III, Sezione Seconda), imponeva: “Le deliberazioni del Corpo legislativo saranno pubbliche, e i verbali delle sedute saranno stampati.”

5 Della mostra di Parigi esiste un catalogo: Josée Chapelle, François Dagognet, Marsha Emanuel, Raoul Girardet (a cura di) Images d’utilité publique (ouvrage publié à l’occasion de l’exposition présentée par le Centre de Création Industrielle du 3 février au 28 mars 1988 au Centre national d’art et de culture Georges Pompidou a Paris) Edition du Centre Pompidou, Paris 1988, pp. 151.

6 Carlo Vinti, Grafica italiana. Dal 1945 ad oggi. (Inserto del n. 329 di Art e Dossier), Milano, Giunti Editore, 2016, pp. 43.

7 Il testo è reperibile sul sito dell’AIAP in http://www.aiap.it/documenti/8046/71

8 Dato dal Sommario statistiche storiche ISTAT Tavola 7.3 - Iscritti alla scuola o all’università per livello di istruzione, sesso e anno scolastico o accademico - Anni 1861/1862-2008/2009, in: http://www.istat.it/it/files/2011/03/sommariostatistichestoriche1861-1965.pdf

9 Dato Anvur sugli atenei italiani in: http://www.anvur.org/attachments/article/644/scheda%20RAPPORTO.pdf

 

Il saggio è tratto dal volume



Veronica Dal Buono

Comunicare l'Università 

Media MD, 2016, pp. 96.

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ISSN 2239-6063

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