Post-it

Intervista a Fabio Gramazio

27 Luglio 2012

 
Fabio Gramazio & Matthias Kohler sono architetti e programmatori, specializzati nell’applicazione di tecnologie digitali all’architettura. In particolare le loro ricerche, condotte presso il Politecnico Federale di Zurigo dove sono docenti della cattedra di Architettura e Fabbricazione digitale e quindi estese ai progetti del loro studio professionale, si concentrano sulle possibilità di utilizzo del braccio meccanico automatizzato nel campo dell’architettura. Il robot è in grado di assemblare elementi modulari secondo forme progettate e calcolate con strumenti di disegno tridimensionale direttamente connessi alla macchina.

Veronica dal Buono: Architetto, la ricerca che assieme a Matthias Kohler conducete già da diversi anni, risulta assolutamente originale e innovativa. Come ha preso avvio e quali presupposti l’hanno reso possibile?

Fabio Gramazio: Abbiamo seguito con molto interesse gli sviluppi tecnico-informatico degli anni ’90, imparando entrambi a servirci della programmazione nel senso diretto del termine: programmare le macchine per creare forme, organizzare moduli. All’epoca tutto ciò era virtuale, esisteva solo a livello di immagine e di dati e non era possibile, né vi era intenzione, tradurre questi eccitanti e nuovi risultati in architettura costruita, considerando l’“architettura” quale organizzazione di materia nello spazio e creazione di spazi per vivere. Anzi, all’epoca era consuetudine leggere questi aspetti del progetto come due discipline in antitesi l’una con l’altra. La “realtà virtuale” in architettura era antagonista della creatura analoga reale, fisica, costruita.
La motivazione che ci ha condotto lungo la strada che percorriamo ora, è stata la speranza che si trattasse solo di una distinzione arbitraria, motivata dalla mancanza di concetti e tecnologie che potessero consentire la traduzione da una realtà all’altra, riconducendo “virtuale” e “reale” ad una sola dimensione. Quando nel 2000 fondammo il nostro studio, abbiamo investito tempo, energia e risorse nell’investigazione di questi fenomeni. Proprio in quegli anni le tecnologie di produzione digitale cominciavano a divenire, se non propriamente “normali”, almeno “pensabili” in architettura. Macchinari che fino a poco prima non erano disponibili o erano troppo costosi, oppure producevano in dimensioni non interessanti per l’architettura, di colpo sono entrati nel mercato.  I nostri primi esperimenti erano praticati con macchine che lavoravano in dimensioni 6 per 3 m, create per l’industria automobilistica e dell’aviazione, cosa fino a pochi anni prima impensabile.

V.D.B.: Quanto ritenete che il contesto nel quale operate vi abbia influenzato e quale eredità della cultura elvetica è sottesa al vostro lavoro?

F.G.: L’attenzione per il dettaglio e l’interesse per la costruzione sono i concetti che, più che “svizzeri” in generale, rappresentano la costante pedagogica dell’ETH, il Politecnico federale di Zurigo. In 150 anni di storia la scuola del Politecnico non ha mai deviato da questa prospettiva, non si è mai lasciata dirottare da mode o contingenze. Il senso spiccato verso la tecnologia della costruzioni come parte integrante, generativa, dell’architettura è l’importante regola che l’Istituzione presso al quale lavoriamo ha saputo mantenere. Il lato positivo (e meno noioso!) è proprio la coscienza dell’importanza del dettaglio costruttivo; dettaglio che diviene centrale appena si comincia a pensare a macchine di precisione come quelle che adottiamo noi: non è possibile realizzare un progetto digitale senza occuparsi dei dettagli.

V.D.B.: Che cosa intende attraverso il concetti di “informing architecture” e di “digital materiality”?

F.G.: L’espressione, più datata e generale, “informare l’architettura”, significa integrare il materiale di una qualità astratta, l’informazione. Può essere un’informazione relativa alla organizzazione oppure alla performance del materiale. Prendiamo per esempio il muro in mattoni, tema cui abbiamo dedicato i primi esperimenti: esso è solo un muro in mattoni come tanti ma arricchito dell’informazione della rotazione dei singoli elementi.
Il concetto si può estendere a piacimento fino ai materiali intelligenti, “smart”.

L’espressione “materialità digitale” l’abbiamo coniata in occasione dell’omonima pubblicazione (Gramazio & Kohler, Digital Materiality in Architecture, Lars Müller Publishers, Baden 2008) e vuole descrivere una creazione completamente artificiale che rispecchia il mondo digitale, immateriale di cui parlavo prima. Tali categorie, fino agli anni ’90 non conciliabili, per noi formano un’unità più ricca del solo digitale o materiale. Nella fusione si generano effetti che sono unici, specifici del fenomeno “materialità digitale”. Proprietà morfologiche che ben conosciamo come appartenenti al mondo digitale, come grafiche che si manifestano solo nello screen, se inserite nel materiale diventano un’esperienza fisica, sensuale. Così i materiali se arricchiti improvvisamente di proprietà facenti parte, a livello di logica, di un altro “dominio”, vengono trasformati. È un neologismo che continuiamo ad arricchire di significati.

  • Cantina Gantenbein, Fläsch, Svizzera, 2006. © Ralph Feiner
  • Cantina Gantenbein, Fläsch, Svizzera, 2006. © Ralph Feiner
  • Facciata della Cantina Gantenbein, Fläsch, Svizzera, 2006. © Ralph Feiner
  • Facciata della Cantina Gantenbein, Fläsch, Svizzera, 2006. © Ralph Feiner
  • Facciata della Cantina Gantenbein, Fläsch, Svizzera, 2006. © Ralph Feiner
  • Facciata della Cantina Gantenbein, Fläsch, Svizzera, 2006. © Ralph Feiner
  • Facade element © Gramazio & Kohler
  • Cantina Gantenbein, Fläsch, Svizzera, 2006. © Ralph Feiner
  • Cantina Gantenbein, Fläsch, Svizzera, 2006. © Ralph Feiner
  • Cantina Gantenbein, Fläsch, Svizzera, 2006. © Ralph Feiner
  • Cantina Gantenbein, Fläsch, Svizzera, 2006. © Ralph Feiner

V.D.B.: Definireste la vostra indagine applicata ad un metodo progettuale o costruttivo, o piuttosto ad entrambi insieme?

F.G.: La riflessione che diparte da questa osservazione è proprio se la progettazione architettonica possa essere considerata in analogia ai metodi di elaborazione delle informazioni ovvero se sia un metodo top down o bottom up (rispettivamente dall'alto verso il basso e dal basso verso l'alto). Per riuscire a rispondere, probabilmente direi “entrambi contemporaneamente”. Posso affermare che nel nostro metodo il sistema costruttivo è sempre il punto di partenza. Ciò non significa che tutto sia sottomesso ad esso, sarebbe riduttivo - il livello del progetto, molto spesso top-down, vi è sempre - eppure la base costruttiva è la fonte di ispirazione originaria.

V.D.B.: Puoi spiegarci come nasce il progetto di un “muro algoritmico” e come si realizza?

F.G.: L’esempio del “muro” è basilare e, per la sua linearità, perfetto per spiegare il concetto.
Il primo passo è cercare di capire a livello fisico, empirico, cosa succede accatastando degli elementi di laterizio uno sull’altro, quanto si possa farli sporgere uno sull’altro. A partire da queste osservazioni empiriche creiamo delle regole specifiche che si possono paragonare alla logica di connessura tra gli elementi, alla regola di tessitura. Raggiunta questa conoscenza attraverso l’esperimento, si formalizza in un programma di regole che possono avere un grado di complessità alquanto superiore a quelle possibili nel lavoro manuale di muratura.
Una volta che il programma è scritto e definisce in maniera univoca e chiara la sequenza e la posizione degli elementi, aspetti questi i più importanti, la sequenza può essere letta da un robot che eseguirà il programma.

V.D.B.: Quali sono le principali caratteristiche del robot?

F.G.: Il robot è più interessante di altre macchine perché antropomorfo e può eseguire dei processi simili a quelli dell’uomo, a livello di abilità e movimento nello spazio, eppure seguendo regole completamente differenti.

In particolare il robot a controllo numerico non necessita di referenze ottiche.
Per spiegarmi: l’essere umano può collocare elementi uno accanto all’altro molto velocemente; quando è aggiunta la richiesta di ruotarli di un valore preciso in gradi, allora è necessario introdurre la misurazione e così l’uomo diventa inefficiente. E l’inefficienza in architettura significa denaro, tempo e non realizzabilità.
L’interessante dunque è la complementarietà che si crea col robot. Senza modificare la velocità e con la stessa efficienza, il robot può eseguire 10.000 operazioni precise nello spazio in tempo reale. Inoltre è poco costoso, robusto e grande, rispetto ad altre macchine di prototipazione digitale (per esempio le frese). Se vogliamo parlare di industrializzazione del settore edilizio questi sono dati importanti perché non si lavora in laboratorio ma all’aperto, sotto la pioggia, e il denaro è sempre poco…

  • Flexbrick: Prototype 2, Zoom-in joints © Gramazio & Kohler, ETH Zurich
  • Flexbrick: Prototype 2, Zoom-in joints © Gramazio & Kohler, ETH Zurich
  • Pike Loop, Manhattan, New York, 2009 ?Installation in public space. © Alan Tansey
  • Pike Loop, Manhattan, New York, 2009 ?Installation in public space. © Alan Tansey
  • Pike Loop, Manhattan, New York, 2009 ?Installation in public space. © Alan Tansey
  • Pike Loop, Manhattan, New York, 2009 ?Installation in public space.

V.D.B.: Un materiale della tradizione, il laterizio, ed una tecnica assolutamente innovativa. Come è nato il progetto per la facciata della cantina Gautenbein (Adolfo Baratta, Informing architecture, Costruire in Laterizio 124, 2008, pp. 48-51; Luigi Alini, Materialità digitale, in Costruire in Laterizio 141, 2011, pp. 74-77) e la collaborazione con il committente?

F.G.: Stavamo concludendo le prime sperimentazioni con laterizi e robot – cercando di sondare le possibilità a livello di estetica e di statica, di costruzione, sostituendo la colla alla malta – quando si è offerta la possibilità di intervenire sulla facciata di questo edificio. L’idea era quella della facciata classica in laterizio, con aperture regolari per la luce, tuttavia con termini temporali estremamente stretti, da aprile a settembre, e il cantiere era già avviato. Progettualmente non vi erano dunque margini di intervento. Questa occasione fortunata ci ha consentito di lavorare su scala più grande di quella da laboratorio e di sfruttare le tecnologie digitali coinvolgendo in particolare un’azienda di produzione di laterizio, creando fiducia, esperienza ed obiettivi comuni. L’esperienza realizzativa lega molto più rispetto ad un meeting o altre forme di collaborazione. Siamo riusciti a concludere la facciata nei termini, realizzandola nei laboratori dell’università sotto la supervisione dell’impresa stessa che poi si è assunta la responsabilità del prodotto, facendo seguire a questa collaborazione altri progetti di cui non posso ancora anticipare….

V.D.B.: Il “muro digitale” ha una propria forte ed autonoma qualità estetica e insieme soddisfa anche ad esigenze progettuali legate al contesto ed alle esigenze funzionali della costruzione. Come si conciliano questi aspetti attraverso il vostro lavoro?

F.G.: Nel progetto della cantina questa coincidenza tra estetica funzionale e costruttiva è riuscita molto bene. Il muro con aperture è stata la tipologia costruttiva ideale per applicare le nostre prime sperimentazioni. Inizialmente il muro digitale era solo un muro aperto, non poteva essere isolato, né impermeabilizzato, aspetti che a tre anni di distanza e di sperimentazioni, sono possibili. Il progetto prevedeva di creare un grande spazio semibuio, che evitasse la luce diretta che può guastare l’uva e la sua lavorazione, con la giusta ventilazione, e al tempo stesso creare un’illuminazione di base che permettesse di lavorare senza luce artificiale. Il laterizio inoltre crea massa e la giusta temperatura con i medesimi cicli di quella esterna.
A livello di progetto architettonico abbiamo creato il motivo “allegorico” delle sfere tridimensionali. Essendo la cantina un oggetto isolato nel vigneto e visibile anche a grande distanza e non paragonabile ad un contesto urbano denso, essa è predestinata al gioco visivo secondo una strategia di immagine non diretta. Il motivo della sfera (analogia all’uva) identificabile a distanza, da vicino o in altre condizioni di luce, sparisce completamente. In alcune orientazioni si percepiscono altre dinamiche, come forze sulla superficie, come un campo di grano mosso dal vento, e i nessi con la sfera e la sua figuratività si dissolvono.

V.D.B.: Il progetto riesce ad esprimere le potenzialità figurative, luministiche e tattili del materiale laterizio. Come è possibile conciliare la sensibilità poetico-espressiva con il processo ideativo e creativo “digitalizzato”?

F.G.: Il risultato della digitalizzazione non è creato dalla macchina ma dall’intelligenza umana, quindi la dimensione poetica è già inclusa in questo atto. Il secondo aspetto importante è che il materiale ha sempre una dimensione fisica, quindi anche sensibile, ha una sua temperatura. Vi sono del resto materiali più o meno espressivi. Il laterizio, con la sua superficie irregolare, è un materiale poetico; ogni elemento è unico, imperfetto, aspetti che nel mondo astratto del computer non esistono. Il vetro, per esempio, è invece completamente astratto e riconquista la dimensione poetica attraverso la riflessione, altrimenti sarebbe amorfo.

V.D.B.: I materiali del progetto: esiste una muta relazione tra forme e materiali. Per ora vi abbiamo osservato lavorare con elementi rigidi ed anche con materiali inizialmente in forma “fluida”. In che modo il progetto digitale ed il vostro metodo di progettazione influisce sulle potenzialità tecnologiche dei materiali individuandone nuove potenzialità espressive?

F.G.: Una strategia di progetto è sicuramente quella della fabbricazione con processo additivo. “Architettura” è per definizione addizione di elementi più o meno complessi e primitivi: è il procedimetno più arcaico, quello del modulo che può diventare pietra, mattone, pietra lavorata, elemento complesso. Grazie alla possibilità di posizionare con il robot un numero molto elevato di elementi di piccole dimensioni, il  limite dell’aumento di tempo lavorativo che altrimenti sarebbe cubico, può essere superato.
Negli anni ’90 la tendenza era a lavorare con elementi sempre più grandi in facciata: l’idea sottesa senza dubbio quella di ridurre i costi di cantiere rispetto a quelli del materiale, costruendo molti più metri quadrati in meno tempo. Eppure più grande è l’elemento più diminuiscono le possibilità espressive.
Ora abbiamo la possibilità di controllare la costruzione con un algoritmo e quindi costruirla con il robot. Il processo può tradursi anche con altre materialità, come per esempio il legno. Con materiali fluidi abbiamo fatto meno esperimenti. Le possibilità espressive sono massime ma il controllo sull’artefatto è invece minimo. Anche quello è un settore che ci interessa e che continueremo a indagare. Quali siano le leggi che agiscono sulle possibilità espressive da un lato, quelle economiche dall’altro, il livello d precisione, sono tutti fattori connessi tra loro e di nostro interesse.
Il laterizio, avendo la possibilità di essere applicato a tutto lo spessore, una volta risolto il problema dell’isolamento, potrebbe riguadagnarsi una posizione di materiale completo, dove il muro intero viene realizzato in maniera omogenea.

V.D.B.: Quali potrebbero essere essenzialmente i vantaggi in un’architettura realizzata, interamente o per componenti specializzate, attraverso il procedimento di programmazione digitale?

F.G.: Io penso che per noi, come architetti, le potenzialità che ci motivano di più siano estetico-architettoniche. Ci sono poi altri vantaggi nella digitalizzazione dell’intero processo di costruzione come la maggior precisione, la riduzione della percentuali di errore, tutti processi di razionalizzazione finalizzati alla migliore qualità del prodotto finale, alla riduzione dei costi, con minor spreco di risorse naturali. Questi i tre parametri che motivano la ricerca nella direzione dell’industria delle costruzioni che, rispetto alle altre industrie, è ancora arretrata, direi “folle” a livello di efficienza di costi.
La digitalizzazione del processo è a nostro giudizio la via logica da percorrere, come del resto stanno svolgendo tutte le altre industrie. Promette di rendere possibile la razionalizzazione del settore senza perdere l’individualità del prodotto, cosa fondamentale in architettura ancor più che nell’industria automobilistica perché in architettura la diversificazione è più fondamentale.

V.D.B.: Quale il futuro del lavoro artigianale e quali conseguenze sulla formazione delle maestranze?

F.G.: Io penso che la digitalizzazione avverrà comunque nella realtà del cantiere e del progetto, con trasformazioni strutturali che altre industrie hanno già visto. Non credo però che la macchina riduca il numero di persone necessarie alla realizzazione del progetto. Queste sono paure che si formulano regolarmente durante la ristrutturazione di ogni industria e si sono sempre rivelate false quando si è verificato che vi sono lo stesso numero di persone impiegate, se non di più, che però si occupano di aspetti diversi. A conti fatti ci sarà lo stesso importante numero di persone impiegate nel settore dell’edilizia.
Nel processo di trasformazione si presenteranno momenti non per tutti. Per le industrie ora la potenzialità è enorme. Vi è il rischio di uscire dal mercato per chi non reagisce abbastanza in fretta, per i grandi come per i piccoli: come possono perdere la battaglia anche i grandi, così anche per i piccoli vi è la possibilità di riposizionarsi completamente, attraverso l’elaborazione innovativa di un know-how che il mercato potrà comprare e chi sarà capace di fornirlo sarà tra i vincitori, come in ogni ristrutturazione.

 

  • Structural Oscillations, Venice, 2007-2008.
    Installation at the 11th Venice Architectural Biennale. © Alessandra Bello
  • Structural Oscillations, Venice, 2007-2008.
    Installation at the 11th Venice Architectural Biennale. © Alessandra Bello
  • Structural Oscillations, Venice, 2007-2008.
    Installation at the 11th Venice Architectural Biennale. © Alessandra Bello
  • Structural Oscillations, Venice, 2007-2008.
    Installation at the 11th Venice Architectural Biennale. © Alessandra Bello
  • Structural Oscillations, Venice, 2007-2008.
    Installation at the 11th Venice Architectural Biennale. © Alessandra Bello
  • Structural Oscillations, Venice, 2007-2008.
    Installation at the 11th Venice Architectural Biennale. © Alessandra Bello

V.D.B.: L’evoluzione della vostra ricerca e in particolare il coinvolgimento di altri professionisti, quali cambiamenti potrà comportare? Quali nuovi requisiti richiederà alle conoscenze dell’architetto-designer?

F.G.: Attualmente le competenze richieste per non sono accessibili ai più.
Io penso tuttavia che il processo si svolgerà comunque. Lo abbiamo visto con il software per il mondo professionale: non importa se venga insegnato a scuola oppure no, i giovani lo assorbono comunque e il mondo professionale si è sempre adattato a nuove realtà.
La domanda critica è: saprà il mondo professionale influenzare questi cambiamenti? Se li influenzerà, li potrà dirottare in maniera positiva e intelligente sull’esercizio del mestiere e nel processo di architettura. Se non li influenza, li assorbirà e sarà costretto ad usare processi sviluppati da altri. Medesima situazione si è verificata per i programmi di disegno che non sono nati per gli architetti, con gli architetti, ma per ingegneri e noi li usiamo per motivi di produttività e non perché ci offrano altri vantaggi.
Sarebbe perdere una potenzialità che il mondo della professione potrebbe sfruttare opportunamente.
Tuttavia ora è un po’ presto e questi cambiamenti stanno iniziando ad interagire col mondo produttivo solo ora. Bisognerà vedere fra dieci anni i giovani architetti se sfrutteranno queste potenzialità. Non posso che credere che ciò non succederà.

Versione integrale dell’intervista svolta nel gennaio 2011 e pubblicata in

Costruire in Laterizio n. 141, 2011, Svizzera, pp. 42-45.


torna su stampa
MD Material Design
Post-it
ISSN 2239-6063

edited by
Alfonso Acocella
redazione materialdesign@unife.it

-